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Arti e tecniche nel Novecento
Studi per Mario Costa
2017
a cura di V. Cuomo, I. Pelgreffi
Kaiak Edizioni
ISBN: 9788892649705

Il volume raccoglie quindici saggi sulle molteplici relazioni tra le tecniche e le arti nel Novecento, a partire dal pensiero di Mario Costa, in occasione dei suoi ottant'anni. Pioniere in Italia degli studi di estetica dei media, nonché di quelli relativi alla filosofia della tecnica, Mario Costa è stato professore ordinario di Estetica all'Università di Salerno ed è noto a livello internazionale soprattutto per il suo libro "Il sublime tecnologico" (Salerno, 1990; Roma 1998).

Saggi di: Roberto Barbanti, Maurizio Bolognini, Vincenzo Cuomo, Matteo D'Ambrosio, Diana Danelli, Paolo D'Angelo, Alice de Carvalho Lino, Derrick de Kerkhove, Roberto Diodato, Filippo Fimiani, Fred Forest, Fabio Galadini, Dario Giugliano, Giuseppe O. Longo, Aldo Marroni, Carla Subrizi.




Arti e tecniche nel Novecento. Studi per Mario Costa, Kaiak Edizioni, 2017, pp.
39-54

Le mie macchine e il sublime tecnologico
come programma artistico

Maurizio Bolognini


"Penso che una parte del mio lavoro possa essere ricondotta all'esperienza del sublime tecnologico, ma tenendo conto che si tratta pur sempre di installazioni basate su un'attivazione minima e astratta di processi tecnologici, che danno luogo (come spiega Costa) a un sublime “addomesticato”, cioè controllato, ma quindi (aggiungerei) in una certa misura anche “critico”, in quanto attivato consapevolmente, e “sperimentale”, piuttosto diverso dal sublime naturale teorizzato alla fine del Settecento: un sublime monumentale come i fenomeni naturali da cui traeva origine, e che poteva anche alludere a qualcosa di inconoscibile che sta dietro all'oggetto, da esperire emotivamente in quanto situato oltre il linguaggio e la rappresentazione simbolica. Al contrario, nel caso del sublime tecnologico e dell'arte generativa sappiamo bene cosa si trova dietro all'oggetto: un software, cioè niente. Mentre rimangono invece la percezione della nostra inadeguatezza nel comprendere quell'oggetto (indecifrabile e infinito), e il disorientamento che questa esperienza può provocare."

 

 

All'origine della nozione di sublime tecnologico scriveva Mario Costa nel 1998, riferendosi al lavoro teorico portato avanti nel decennio precedente c'era «la consapevolezza, ormai netta, che l'irruzione e la pervasività delle tecnologie costituiva il vero nuovo eccesso del post-moderno».1

Le tecnologie digitali, secondo Costa, stavano creando le condizioni per un nuovo tipo di esperienza estetica il sublime tecnologico che non aveva il carattere aleatorio e imprevedibile del sublime naturale, ma poteva invece essere prodotto in forme ripetibili e controllate. Questo nella sua analisi avrebbe portato via via a un processo di corrosione dell'arte e delle tradizionali categorie dell'estetica, sostituite dal sublime tecnologico, e in questo quadro anche la funzione dell'artista sembrava ridefinirsi:

la de-soggettivazione e la de-simbolizzazione del prodotto, il lavoro artistico come pura messa in forma dei nuovi significanti tecnologici, la fine dello stile e la disumanizzazione dell'opera, il subentrare di un impersonale soggetto epistemico a intenzionalità estetica al posto della vecchia e antiquata personalità artistica, erano i postulati fondamentali del sublime tecnologico.2

La questione su cui vorrei riflettere partendo da qui e con riferimento alla mia esperienza artistica è la possibilità che il sublime tecnologico (una nozione tra le più originali e interessanti per comprendere l'arte degli ultimi decenni) possa essere considerato ancora come un programma artistico sia pure estremo invece che parte di quel processo di corrosione e oltrepassamento dell'arte attribuito da Costa alle stesse forme di produzione socializzata del sublime.

Questo contribuirebbe forse a rimuovere alcuni ostacoli alla comprensione dell'arte neo-tecnologica, soprattutto oggi che la diffusione dei nuovi media sta rendendo tutta l'arte postdigitale,3 e la new media art ha ormai dovuto fare i conti con l'eterogeneità delle sue diverse manifestazioni e con una persistente marginalità nel sistema dell'arte. Mentre invece si sta affermando un tentativo interessante di collocare almeno una parte dell'arte legata alle tecnologie digitali all'interno di una prospettiva storica ampia, che comprenda tutta la produzione artistica del '900 che si è confrontata con le macchine e con i sistemi tecnici.4

Vorrei accennare innanzitutto, brevemente, ad alcune mie installazioni (in particolare alle Macchine programmate e alle installazioni interattive della serie SMS Mediated Sublime) in modo che sia chiaro sulla base di quali esperienze intendo considerare qui la questione.

     
    Macchine programmate

Quando ho iniziato a lavorare alla prime serie di Macchine programmate,5 tra gli anni '80 e '90, ero attratto soprattutto dall’autosufficienza della macchina e dall’inesauribilità dei processi che mi consentiva di attivare. Programmavo decine di computer per generare flussi di immagini in continua espansione e poi li lasciavo funzionare all'infinito. Di solito si trattava di grafismi che potevano estendersi indefinitamente, inesauribili e con variazioni continue che li rendevano sempre diversi.

 

M. Bolognini, Installazione di Macchine programmate, 1988-

Nel 1992 avevo anche iniziato a lavorare alla serie dei Computer sigillati. Dopo averli programmati “sigillavo” con del silicone tutte le prese in modo che non potessero essere collegati né a un monitor né ad altre periferiche. I Computer sigillati sono stati esposti in decine di mostre, in Europa e negli Stati Uniti:  li programmavo, li sigillavo e poi li lasciavo funzionare sparsi sul pavimento. Nelle mie intenzioni lo spazio espositivo diventava una specie di “officina metafisica” in cui le immagini venivano continuamente prodotte ma senza poter mai diventare oggetti fisici. Alla fine ho programmato in questo modo centinaia di macchine, molte sigillate, altre collegate a schermi e videoproiettori. Alcune di queste (come nella serie SMS Mediated Sublime) erano anche interattive e usavano la rete telefonica mobile per consentire a chiunque di intervenire dal proprio telefono, modificando in tempo reale alcune caratteristiche delle immagini.


M. Bolognini, Installazione di Macchine programmate (serie Computer sigillati),
Atelier de la Lanterne, Nizza, Francia, 1997.
 

In quel periodo facevo anche dei video (Più tempo più spazio, o Machine Art) in cui riprendevo centinaia di persone che disegnavano nell'aria, in modo simile alle mie macchine. Come ho sottolineato altre volte, non mi consideravo un artista che crea certe immagini e nemmeno soltanto un artista concettuale, ma piuttosto un artista che – delegando la propria azione al tempo infinito delle sue macchine – poteva realizzare immagini sconfinate, potenzialmente illimitate nello spazio e nel tempo. Sia la velocità di queste macchine sia la loro autosufficienza evidenziavano inoltre una separazione e una sproporzione tra l'artista e l'opera, che in quel momento era un aspetto su cui riflettevo e che mi interessava. Così quando ho “scoperto” Il sublime tecnologico di Mario Costa (nell'edizione pubblicata da Castelvecchi nel 1998), mi sono reso conto che questa poteva essere la categoria più interessante per definire quella sproporzione e separazione che cercavo attraverso l'eccesso tecnologico. La categoria del sublime consentiva come nessun'altra di trattare la dismisura tra l'osservatore e lo “spettacolo” della tecnologia, evocando una tensione tra finito e infinito; e consentiva di ricondurre l'esperienza estetica del non-simbolico (anche se allora non avrei usato questa espressione) all'esperienza di un eccesso destrutturante, il cui carattere enigmatico veniva spiegato da Costa sottolineando che «lo stesso disfarsi della soggettività e lo stesso scivolamento verso il nulla provocano di per sé un tipo particolare di piacere: la minaccia proveniente dall'eccesso potrebbe essere vissuta come una dissoluzione immaginaria dell'io».6

Il mio interesse era rivolto soprattutto al sublime tecnologico, mentre la riflessione sull'oltrepassamento dell'arte mi sembrava secondaria. Pensavo che l'arte si fosse talmente laicizzata da poter essere considerata ormai come una irrinunciabile zona franca in cui era possibile in fondo sperimentare qualsiasi cosa: un'area di ricerca più aperta dove potevano trovare spazio progetti impraticabili in altri contesti e prospettive ancora ignorate dal sapere consolidato.7

Nell'analisi di Costa, tuttavia, il sublime portava verso un superamento dell'arte in quanto implicava una “sospensione del simbolico che lo rendeva indicibile. E anche per questo l'“artista” avrebbe dovuto trasformarsi in un “ricercatore estetico”, cioè uno sperimentatore capace di coniugare l'intenzionalità estetica con la ricerca scientifica e tecnologica, attento soprattutto alla fisiologia e alle funzionalità dei sistemi tecnici impiegati.

Naturalmente questo poteva essere interpretato in vari modi e penso che già allora Mario Costa considerasse anche me un “ricercatore estetico”. Tuttavia se avessi dovuto spiegare perché, come artista, ero interessato alla tecnologia, avrei dato anche allora due risposte diverse, che non coincidevano del tutto con la definizione di ricercatore estetico. 1) Noi siamo esseri tecnici immersi in un mondo che vive tecnicamente, attraversati negli ultimi decenni da trasformazioni tecnologiche epocali, che hanno prodotto un'inquietudine e una tensione verso il futuro che l'arte non poteva non far propria, cercando di comprendere in profondità il nuovo ambiente tecno-antropologico. In questa prospettiva vedevo l'arte neo-tecnologica (almeno quella che mi interessava, caratterizzata dall'attivazione minima e astratta di processi tecnologici incontrollati) come una forma particolare di arte concettuale, o tecno-concettuale, che assumeva le tecnologie non solo come medium, ma come proprio oggetto d'indagine. 2) La seconda risposta riguardava l'urgenza di una sperimentazione estetica non-simbolica (cioè non riferibile al linguaggio e alla cultura), che sentivo profondamente e che avrei potuto portare alle estreme conseguenze solo attraverso l'attivazione di processi tecnologici autosufficienti, cioè delegando la mia azione artistica a delle macchine. Una sperimentazione di questo tipo poteva rimandare alla cosiddetta “crisi del simbolico” e alla “debolezza del soggetto”, che non erano estranee al dibattito sulla rivoluzione tecnologica in atto, e mi sembrava portassero dritte anche a ciò che Mario Costa aveva indicato come sublime tecnologico.

Il punto che vorrei sottolineare è che questi due diversi modi di considerare l'arte neo-tecnologica come una forma di arte concettuale o post-concettuale (anche per una tensione verso l'auto-consapevolezza della ricerca artistica) e come sperimentazione estetica del non-simbolico possono integrarsi e sovrapporsi.  [...]
 

        Il sublime come programma estetico-artistico

Nell'analisi di Mario Costa la teoria del sublime rimanda, sul piano estetico e su quello antropologico, ad altre due questioni: l'“oltrepassamento” dell'arte e la “disumanizzazione tecnologica” dell'arte e del mondo.

L'oltrepassamento dell'arte viene analizzato a due livelli distinti. Innanzitutto si evidenzia un lungo processo di de-soggettivazione dell'arte (la sua conversione dal soggettivo all'oggettivo) che rappresenta esso stesso una sorta di oltrepassamento dell'arte e delle sue categorie (la personalità artistica, lo stile, l'espressione ecc.) le cui cause vengono ricondotte non solo alle tecnologie digitali ma, più generalmente e in una prospettiva che comprende tutto il '900 e il modernismo delle avanguardie –, alla progressiva “tecnologizzazione” del mondo, su cui tornerò più avanti.

Su un piano più specifico (che qui interessa di più in quanto riferito unicamente alle tecnologie digitali), viene inoltre sottolineata l'incompatibilità del sublime tecnologico, e della sua produzione controllata, con la cultura e con il mondo simbolico (e quindi con l'arte), spiegando «come il sublime provochi uno scacco e una sospensione del simbolico e come, pertanto, esso sia assolutamente indicibile; nominare il sentimento del sublime significa già […] passare dal sublime al simbolico».8 E ancora: «ogni volta che un significante eccessivo viene riscritto e restituito in termini umanocentrici, sia il mito, la religione, l'arte o la scienza a fare questo, esso cessa di agire come sublime».9 Inoltre, «Il sentimento del sublime […] pur essendo costituito da un complesso gioco simbolico, può essere innescato soltanto da ciò che è collocato al di qua di ogni funzione simbolica, da ciò che non può in alcun modo essere ricondotto a una qualunque misura antropocentrica».10 E infine:

sempre il sublime si genera da una crisi del simbolico indotta da qualcosa che non può essere detta e non può essere messa-in-forma. Condizione questa che non ha nulla a che fare con l'opera d'arte, che si identifica sempre e comunque con un universo già detto e già formato. Nessuna opera d'arte potrà dunque veramente costituire l'origine e dare avvio a quel sentimento del sublime che solo nasce a partire dall'informe e dall'indicibile.11

Certamente è difficile non condividere queste osservazioni di Costa sull'incompatibilità del sublime con la cultura e quindi in una certa misura con l'arte. Tuttavia resta ancora una domanda a cui bisogna rispondere: che succede allora quando un artista decide di portare questa cosa che nasce “dall'informe e dall'indicibile” (ma che è “oggettivata”12 e prodotta in modo controllato) in una galleria d'arte? Evidentementesenza volerne fare una questione nominalistica in questo caso l'“arte” potrà non trovarsi nella “cosa” ma consisterà nella decisione di esibirla e nelle sue conseguenze. Questo significa che anche volendo assumere che il sublime tecnologico non possa costituire un programma artistico in sé, sarebbe difficile sostenere che non lo sia la sua attivazione in un contesto artistico.

Naturalmente un programma artistico realizzato attraverso la produzione tecnologica di eccessi destrutturanti e fondato su un'estetica immateriale, non-simbolica, fatta solo di significanti, comprenderà anche l'auto-esclusione della soggettività dell'artista e quindi (come anche per molta parte della produzione artistica contemporanea non tecnologica) c'entrerà poco con un modo di intendere l'arte e l'artisticità basato sulla personalità e l'espressione dell'artista, il/la quale tuttavia manterrà una visione del mondo e agirà all'interno di una dimensione “culturale”, qualsiasi cosa abbia deciso di fare, compreso l'azzeramento della propria soggettività. Del resto, come spiegava Gregory Bateson nel primo dei “cinque assiomi della comunicazione umana”:13 è impossibile non comunicare, perché si comunica anche attraverso l'assenza e il silenzio. Se porto delle macchine funzionanti in uno spazio espositivo è evidente che sto comunicando anche la mia volontà di essere assente e la scelta di delegare l'azione artistica a delle macchine (anche nell'arte non si sfugge al paradosso della comunicazione mancata come atto comunicativo).

Su un piano diverso la stessa questione dell'oltrepassamento dell'arte potrebbe essere posta anche in termini più “sociologici”: è possibile ipotizzare un oltrepassamento dell'arte al di fuori del sistema dell'arte? Nel 1997, con Angelo Candiano (un altro artista a cui Mario Costa ha dedicato alcune interessanti riflessioni14), ci eravamo rivolti all'Ufficio Internazionale Brevetti Manzoni & Manzoni (scelto per il nome) per registrare la proprietà del termine Oltrearte. Per alcuni anni abbiamo poi fatto “mostre” in cui esponevamo la scritta Oltrearte insieme con il brevetto, serigrafato su lastre di acciaio lucidato, oppure contrassegnavamo oggetti di largo consumo che poi venivano esposti in grandi centri commerciali. Alcune volte abbiamo anche ceduto temporaneamente il diritto d'uso per una sola opera ad altri artisti, come Daniel Rothbart, e non artisti, come Tullio Regge.15 Il brevetto Oltrearte evidenziava una situazione paradossale in cui da una parte potevamo sostenere la necessità di un oltrepassamento dell'arte e della sua deriva commerciale ma dall'altra lo facevamo attraverso un brevetto che era sia un'operazione “artistica” sia l'attribuzione di un diritto di sfruttamento commerciale. Il progetto Oltrearte indicava in modo provocatorio la difficoltà e forse l'inconsistenza di qualsiasi tentativo di superare una situazione in cui l'arte è anche “convenzione” e “sistema”.

Del resto nello stesso lavoro di Costa sul sublime tecnologico c'è una complessità che in alcuni passaggi consente di fare ancora riferimento all'arte: «Con la tecnica dunque, il sublime cessa di appartenere soltanto alla natura e comincia realmente ad appartenere anche all'“arte”».16 E come non condividere il riferimento a Ortega,17 che nel 1925 «per la prima volta rilevava la tendenza alla “disumanizzazione” dell'arte moderna e metteva soprattutto in evidenza la totale e voluta inespressività delle opere d'arte e degli artisti»18, una tendenza alla purificazione dell'arte attraverso l'eliminazione di ogni elemento umano: «L'importante è che esiste nel mondo l'indubitabile presenza d'una nuova sensibilità estetica […] la tendenza a disumanizzare l'arte […] non soltanto inumana per non contenere cose umane, ma perché consiste principalmente in questa attività 'disumanizzante' […] il piacere estetico per l'artista nuovo deriva da questo trionfo sull'umano.»19

Mentre ciò che secondo Costa manca all'analisi di Ortega è «il tentativo di comprendere le cause del fenomeno che descrive o, il che è lo stesso, il non averlo saputo collegare […] con quanto era avvenuto e stava avvenendo nel campo delle tecnologie. Perché, non c'è dubbio, “disumanizzazione” dell'arte e “tecnologizzazione” del mondo marciano di pari passo e sono due facce dello stesso fenomeno.»20  In altre parole, l'inespressività dell'arte, la sua conversione dal soggettivo all'oggettivo, la sua laicizzazione (che hanno accompagnato ma anche preceduto l'arte neo-tecnologica), corrispondono a una più generale laicizzazione del mondo e del senso, che Costa attribuisce agli effetti dello sviluppo tecnologico. A questo egli aggiunge però un altro elemento, che ci riporta alla seconda delle questioni indicate all'inizio: la “disumanizzazione tecnologica” non investe solo il piano estetico, in quanto “purificazione” dell'arte, ma anche il piano antropologico, in quanto espropriazione dell'umano da parte della tecnologia, una tesi che viene ripresa nel suo libro più recente, Dopo la tecnica:

La dimostrazione che la tecnica sta lavorando alla realizzazione di un nuovo livello evolutivo rispetto a quelli già raggiunti dalla natura, sta poi nel fatto che essa è in grado di generare elementi non presenti in natura, di manipolarla dall'interno per ottenere fenomeni inediti ed estranei alla natura, la stessa nozione di “materia” è in questione, la tecnica insomma si sta preparando [...] a dar vita a un livello post-tecnologico nel quale lo sviluppo non ha più bisogno né dei tecnici né della tecnologia; l'epoca post-tecnologica è […] quella nella quale dietro alla tecnica non c'è più in alcun modo l'uomo, ma altra tecnica ed essa soltanto.21

Si tratta di questioni che vanno oltre lo scopo di queste considerazioni sul sublime come programma artistico. Mi limito a osservare che una concezione della tecnica come ormai intrinseca a se stessa e nuovo “terrificante” in grado di ridurci a una specie di proprio servomeccanismo, può sembrare molto impegnativa all'interno di una teoria estetico-artistica del sublime tecnologico (se non altro perché gli artisti tecnologici, compreso chi scrive, hanno quasi sempre manifestato un interesse positivo per le tecnologie). Anche se questa concezione viene ricondotta da Costa alla teoria kantiana del sublime: al confronto tra la natura (in quanto “assolutamente grande” il cui riconoscimento è all'origine del sentimento del sublime naturale) e la tecnologia, che

col pericolo supremo della espropriazione radicale dell'umano, ha creato un nuovo “terrificante”, e se è vero che «la natura suscita soprattutto le idee del sublime nel suo caos, nel suo maggiore e più selvaggio disordine e nella devastazione»,22 è ugualmente vero che accanto al terrificante naturale bisogna ora considerare il terrificante tecnologico.23

Se prendo come riferimento concreto le mie installazioni (e solo quelle, quindi senza alcuna pretesa di trarre conclusioni generalizzabili), non riesco a vedere una relazione con la “terribilità” della tecnica. Nelle mie installazioni (in particolare quelle riconducibili all'arte generativa e alla programmazione di dispositivi digitali) vedo innanzitutto la possibilità di delegare la mia azione artistica alla macchina, consentendomi di protrarla per un tempo indefinito e superiore al mio (mi piace l'idea di aver disegnato, con centinaia di macchine, immagini in grado di coprire una parte non trascurabile della superficie terrestre). Poi, nella generazione istantanea di queste “immagini” prive di significato (flussi in espansione sempre diversi, non memorizzabili, difficili da decodificare e comprendere) vedo un eccesso destrutturante, una tensione tra finito e infinito e insieme una dismisura tra l'artista e l'opera. Questo può valere per gli stessi Computer sigillati, che qualcuno ha associato anche a un “sublime del vuoto”.24

Penso che questo possa essere ricondotto all'esperienza del sublime tecnologico, tenendo conto tuttavia che si tratta pur sempre di installazioni basate su un'attivazione minima e astratta di processi tecnologici, che danno luogo (come spiega Costa) a un sublime “addomesticato”,25 cioè controllato, ma quindi (aggiungerei) in una certa misura anche “critico”, in quanto attivato consapevolmente, e “sperimentale”, piuttosto diverso dal sublime naturale teorizzato alla fine del Settecento: un sublime monumentale come i fenomeni naturali da cui traeva origine, e che poteva anche alludere a qualcosa di inconoscibile che sta dietro all'oggetto, da esperire emotivamente in quanto situato oltre il linguaggio e la rappresentazione simbolica.26

Al contrario, nel caso del sublime tecnologico e dell'arte generativa sappiamo bene cosa si trova dietro all'oggetto: un software, cioè niente. Mentre rimangono invece la percezione della nostra inadeguatezza nel comprendere quell'oggetto (indecifrabile e infinito), e il disorientamento che questa esperienza può provocare.

Costa analizza la natura di questo disorientamento proprio in rapporto all'arte generativa e alle immagini di sintesi, che «esibiscono nelle forme dell'intuizione sensibile la struttura e il funzionamento logico-matematico dell'intelletto» e «sono una sorta di raffigurazione del pensiero strumentale.»27 Secondo Costa, dell'immagine sintetica:

non può esserci mai vera comprensione poiché non si lascia in alcun modo ridurre all'unità e la sua forma sfugge a ogni delimitazione: con l'immagine sintetica l'immaginazione è posta di fronte a un'apprensione ad infinitum nel senso che il molteplice rappresentato tende potenzialmente all'infinito: […] l'immaginazione cioè apprende l'immagine sintetica ma non la comprende per la tendenziale infinità della sua essenza.28

Si determina quindi un distanziamento della ragione dal pensiero strumentale e «la ragione contempla l'oggettivazione alienata dell'intelletto».29

Tenendo conto di queste considerazioni vorrei introdurre un ultimo punto riguardante il sublime e l'interattività.


     Sublime tecnologico e interattività

Vorrei partire da due constatazioni. 1) Il sentimento del sublime tende a esaurirsi con la ripetizione dell'esperienza.30 Questo vale anche per il sublime naturale (osservare il deserto per la prima volta o abitare nel compound di una società petrolifera non è la stessa cosa), ma mentre il sublime naturale è legato anche all'esperienza di fenomeni inaspettati, il sublime tecnologico è controllato e ripetibile, quindi tende a depotenziarsi. 2) Davanti a un flusso generativo, l'esperienza sfuggente del sublime tecnologico è diversa per l'artista e per il pubblico: lo spettatore può osservare il risultato del processo generativo ma l'artista ha anche modo di agire sul programma che l'ha attivato, sperimentando in tempo reale la potenza del proprio gesto continuamente replicato e amplificato dalla macchina.

[...

     

    Note

1 M. Costa, Il sublime tecnologico, Castelvecchi, Roma 1998, p. 5.

2 Ivi, pp. 5-6

3 M. Bolognini. Postdigitale, Carocci, Roma 2008.

4 In particolare A. Broeckmann, Machine Art in the Twentieth Century, MIT Press, Cambridge Ma 2016.

5 S. Solimano (a cura di), Maurizio Bolognini. L'infinito fuori controllo: Macchine Programmate 1990-2005, Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova, 2005.

6 M. Costa, Il sublime tecnologico, cit., p. 26.

7 D. Scudero, “Arte e tecnologie digitali in un dialogo con Maurizio Bolognini”, Luxflux Proto-type, 6, 2004; e in S. Lux, Arte ipercontemporanea, Gangemi, Roma 2006, p. 390.

8 M. Costa, Il sublime tecnologico, cit., p. 27.

9 Ibidem.

10 Ivi, p. 44.

11 Ivi, p. 45.

12 Ivi, p. 47.

13  G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977.

14 M. Costa, “La luce, il tempo, la carta sensibile”, in D. Scudero (a cura di), Angelo Candiano. Luce della complessità con paragrafi di fotosofia, Gangemi Editore, Roma 2005.

15 Nel 1999 alcuni di questi lavori furono esposti al Palazzo Ducale di Genova: R. Ferrari (a cura di), Contemporanea-mente, Leonardi V-Idea, Genova 1999.

16 M. Costa, Il sublime tecnologico, cit., p. 47.

17 J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell'arte, Sossella Editore, Roma 2005 (1925).

18 M. Costa, “Maurizio Bolognini o dell'ascetismo tecnologico”, in Aa.Vv, Maurizio Bolognini. Infinito personale, Edizioni Nuovi Strumenti, 2007, p. 5.

19 J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell'arte, cit., p. 27.

20 M. Costa, “Maurizio Bolognini o dell'ascetismo tecnologico”, cit., p. 5. Una più ampia trattazione è in M. Costa, La disumanizzazione tecnologica, Costa & Nolan, Milano 2007.

21 M. Costa, Dopo la tecnica, Liguori, Napoli 2015, pp. 86-7. Sembra interessante confrontare le tesi di Costa sul sublime (formulate già alla metà degli anni '80) e poi sul mondo “post-tecnologico” con quelle avanzate da un esponente del marxismo critico, Fredric Jameson (Postmodernism, Duke University Press, Durham NC 1991), pensando non alle tecnologie cognitive e al deep learning, ma ancora alla struttura economico-tecnologica del tardo-capitalismo e al suo sviluppo globale, che avrebbe fatto sì che l'altro rispetto alla società non sia più la natura come per Burke (A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, 1757), ma l'enorme concentrazione di forza lavoro immagazzinata nelle macchine. Per questo secondo Jameson sarebbe il “sublime tecnologico” o “sublime postmoderno” ciò che nasce dal nuovo altro dalla natura e che rende impossibile qualsiasi tentativo di pensare la totalità del “sistema mondiale” contemporaneo, enorme e minaccioso quanto la natura per Burke.

22 I. Kant, Critica del Giudizio; Laterza, Bari 1970, p. 93.

23 M. Costa, Il sublime tecnologico, cit.,p. 72.

24 Benjamin Garfield in una tesi di dottorato poi pubblicata da Palgrave Macmillan: The Cyborg Subject. Parallax Realities, Functions of Consciousness and the Void of Subjectivity, University of Wolverhampton, 2014, pp. 74-5: «Questo limite della coscienza sul confine del principio antropico è evidente nella serie Computer sigillati (1992), descritta come uno sviluppo chiave nella software art. La completa inaccessibilità dell'immensa quantità di immagini create dall'opera evoca una sublimità tecnologica del vuoto.» Sulla “poetica del vuoto” nell'arte tecnologica si veda V. Cuomo, Eccitazioni mediali, Edizioni Kaiak, s.l. 2014, pp. 146-157.

25 M. Costa, Il sublime tecnologico, cit., pp. 64, 73, 78.

26 Si veda l'analisi della teoria kantiana del sublime in Slavoj Žižek, The Sublime Object of Ideology, Verso, London 1989, pp. 202-7.

27 M. Costa, Il sublime tecnologico, cit., p. 77.

28 Ivi, pp. 73-74.

29 Ivi, p. 78.

30 Su questo si sofferma D. E. Nye, American Technological Sublime, MIT Press, Cambridge Ma 1994, attribuendo al “sublime tecnologico americano” il ruolo socialmente unificante svolto nelle società tradizionali dai fenomeni religiosi: interessante la constatazione che solo il continuo sviluppo tecnologico ha potuto alimentare il sentimento del sublime.

31 J. Rancière, The Future of the Image, Verso, London 2007.

32 M. Bolognini, The SMSMS Project: Collective Intelligence Machines in the Digital City”, Leonardo, 37/2, MIT Press, 2004, pp. 147-149. Si trattava quasi sempre di grandi scarabocchi e grovigli (il gesto estetico più elementare, legato anche all'idea di movimento e di infinito) di cui il pubblico poteva cambiare istantaneamente alcune caratteristiche (per es. traiettorie più o meno curve o sottili o tracciate con un raggio più ampio ecc.). 

33 Queste installazioni usavano tecniche prese dall'e-democracy, di cui mi ero occupato negli anni precedenti (M. Bolognini, Democrazia elettronica, Carocci, Roma 2001), ed erano pensate come una forma di democrazia procedurale, basata su flussi di comunicazione capaci di favorire la convergenza delle scelte attraverso 1) la continua revisione delle decisioni individuali (ogni spettatore poteva inviare in qualsiasi momento nuove istruzioni alla macchina che sostituivano le proprie precedenti istruzioni), 2) il “feedback” (chiunque poteva vedere istantaneamente le immagini prodotte seguendo le proprie indicazioni) e 3) la “risposta statistica” (subito dopo ripartiva sempre un nuovo ciclo di immagini che teneva conto delle indicazioni di tutti).

34 M. Bolognini, “De l'interaction à la démocratie. Vers un art génératif post-digital”, in Aa.Vv., Ethique, esthétique, communication technologique, Edition L'Harmattan. Paris 2011, p. 239. Un altro lavoro in cui avevo usato il decision-making interattivo è Interactive Collective Blue (ICB), un'installazione realizzata a Nizza nel 2006 pensando all'International Klein Blue (IKB). In questo caso alla rete telefonica era stata collegata una macchina programmata per generare variazioni di luce blu (usando il modello RGB, che produce qualsiasi sfumatura di colore attraverso la miscelazione additiva di rosso, verde e blu). I membri del pubblico sono intervenuti dal proprio telefono in centinaia di round, modificando continuamente le tre componenti del colore blu dell’ambiente secondo le proprie preferenze, fino a raggiungere un certo grado di consenso su una serie ristretta di “blu democratici”. Aa.Vv, Maurizio Bolognini. Infinito personale, Edizioni Nuovi Strumenti, s.l. 2007, p. 58.

35 M. Costa, Il sublime tecnologico, cit., p. 47.

36 Ivi, p. 57.


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